I tempi sono cambiati.

Quando l’S55 è stato progettato, ogni Nazione Europea aveva una decina di costruttori aeronautici.

Si andava per prototipi, modelli speciali per il Trofeo Schneider, serie limitate.

Il fratellone monoscafo del 55, l’S63, è stato costruito in un solo esemplare. Venduto a una aerolinea e nessuno ha pianto.

Un mercato che assorbiva tutto e che l’anno dopo voleva nuovi modelli. Linee caccia rinnovate ogni tre anni.

L’avanzare della tecnologia, e di una maggiore coscienza sociale su faccenduole tipo non ammazzare i piloti con eccessiva frequenza, ha richiesto col tempo prove, calcoli e tempi di gestazione più importanti.

Le industrie si sono concentrate, le gelosie nazionali hanno lasciato spazio alla necessità di collaborazione per abbattere i costi, a meno di non essere ebbri di Bordeaux e baguette e allora lì uno si fa il Rafale da solo, a la Cambronne.

Nel 1973 vola il Tornado, frutto degli sforzi congiunti di  Italia, Regno unito e Germania (Ovest, è passato proprio tanto tempo così..)

Che è stato una aereo importante.

Perché ha visto il debutto come Progettista di Vito Sapienza.

Ignaro della Gloria che lo avrebbe circonfuso in anni successivi come Coordinatore Tecnico di Progetto 55, all’epoca il giovane Vito si limitò a dare la scalata ai vertici di Aeritalia.

Sul Tornado si occupò di parti dell’ala, quella meravigliosa geometria variabile su cui si cominciavano ad applicare i primi calcoli computerizzati.

Sei-sette suddivisioni per la corda, dieci per l’apertura, roba che oggi si usa per i calcoli preliminari all’università ma che allora era il bleeding edge, da cavalcare senza paura perché il rischio che l’aereo dovesse davvero andare a spararsi coi Russi era concretissimo, e non ci si risparmiava.

Un lungo percorso fatto anche di aviazione civile; il  Boeing 787 Dreamliner è stato l’ultimo lavoro lì; a Grottaglie si facevano, da progetto a produzione un bel pezzo di fusoliera da 8 metri e i piani di coda.

Lì il ruolo di Vito era valutare le non conformità; faccenda non scontata che merita una spiegazione.

Una volta si diceva che gli aeroplani venivano progettati con un regolo calcolatore, fabbricati con un lima, riparati con un martello.

E’ ancora vero.

Il disegno ipotizzato di una parte spesso si contra con la dura realtà delle cose, uscendone malconcio.

Diverse tecnologie tra i partners, esigenze contingenti, semplice inapplicabilità. O disegni sbagliati, valori diversi dal dichiarato (anche nelle potenze del motore), comandi con una escursione inadatta… l’elenco è infinito, e di fronte a questo infinito c’è un uomo che si batte.

E decide, Heimdall sul ponte, cosa passa e cosa no; se le modifiche siano accettabili o se occorra ritornare al tavolo dal disegno. Accetta, ripara, butta; e se si butta son dolori, ma è meglio che far cadere un aeroplano.

Resta saldo ai suoi princìpi l’Uomo sul ponte, e questi sono per l’aviazione civile i codici che stabiliscono i carichi e le robustezze, elaborati in decenni di studi; mentre nel militare è un po’ come per l’avvocatura, ci sono dei criteri generali ma poi si va a vedere caso per caso, perché i carichi e le missioni hanno la variabilità delle guerre, almeno di quelle che non si vuol perdere.

Queste cose succederanno, è inevitabile, anche col nostro S55; e volta per volta bisognerà valutare, e anche lì come in tanto altro l’esperienza di Vito ci sarà da guida.

Gli abbiamo chiesto cosa lo abbia colpito di più del 55, e la risposta è stata tipica, per chi un po’ ci abbia parlato:

“Io dall’ S55 ho solo imparato”.

Detto da uno che ha lavorato su Tornado e 787, eh.

E che magari potrebbe tirarsela di più, ma son gusti.

Perché c’è il legno, e si tratta di riscoprire con gli strumenti di oggi un’arte progettistica perduta.

Si tratta come un composito, ma si sta bassi e prudenti, perché come cresce l’albero lo decide lui, c’è mica un robot a filare carbonio.

E poi nel tempo il legno vive e cambia, come sa chiunque abbia bestemmiato per un infisso che si spaccava, o amato una chitarra per più anni che una donna.

E di questo bisogna tenere conto, dicendo a Nastran di essere rispettoso di quelle fibre che dovranno durare nel tempo e allora dai, metti un millimetro in più.

Alla fine però glie lo abbiamo costretto a sbilanciarsi, giurando che Marchetti non si sarebbe offeso: se fosse tornato indietro nel tempo, e avesse potuto dare all’Ale un consiglio, uno solo, cosa gfli avrebbe detto?

“Gli avrei detto di provare a fare le travi di coda in metallo. Probabilmente sarebbe stato anche più economico”.

Un parere condiviso da tal Giuseppe Gabrielli, che infatti lavorò a una revisione in metallo del 55..

Siamo in ottima compagnia.